con Vincenzo Zitello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FARFALLE E BIRRA

I due fari sapientemente posizionati disegnano sulla bianca parete la sottile gabbia delle corde dell’arpa su cui scivolano, come farfalle indecise, le dita di Vincenzo Zitello. Movimenti apparentemente senza peso – la sinistra con piccoli scatti fa vibrare i bassi e subito li stoppa accarezzando col palmo le corde; la destra, più decisa e nervosa, apre le dighe ai trilli della melodia – che in certi momenti affascinano di per sé, come se quelle ombre danzassero al suono dell’arpa e non ne fossero invece la causa.

Intorno, più gente di quanta sarebbe lecito ammetterne in quella sala di antica nobiltà industriale, trattiene il respiro e si lascia trasportare fuori, lontano, in alto, altrove; ma altri – come sospetto io – stanno invece compiendo un viaggio interiore, riscoprendo dentro di sé il significato della bellezza, della dolcezza, della storia, della gioia. Quella musica, lo so per certo, per anni è stata ispiratrice di colori e forme e immagini e sfumature che possiamo oggi ammirare in questa stessa sala.

E’ con orgoglio malcelato, anzi, esibito, che ho presentato ai miei concittadini questa serata e questo artista di cui sono stato ispiratore (della serata, non dell’artista!). Ma nell’introduzione mi sono lasciato scappare una sciocchezza. Sul palco ci sono due arpe celtiche (le significative differenze, i corretti nomi, ce li spiegherà Vincenzo che ha subito fatta sua l’etichetta di “seminario musicale” che miopi regolamenti burocratici ci hanno imposto, ma che, alla fin fine, sarà motivo di una più completa, interessante, ricca e consapevole fruizione della serata) ed io ironizzo che le suonerà presumibilmente una alla volta, visto anche il logico e strategico posizionamento dei due sgabelli. A smentirmi e stupefarci, invece, lui a un certo punto se le porrà accanto entrambe e le suonerà contemporaneamente, tessendo ricami e bordoni e onde di suoni che sembrano scaturire per magia dal simbolo tri-spiralato del Triskel della sua cintura.

Davanti a una tardiva pizza vegetariana, chiacchierando amabilmente di squarci di vita e figliole (la tosta Ambra e la piccola Anna), di diametro di corde e costi della musica (una custodia imbottita per chitarra la trovi a 30 euro, per quella della sua arpa ne vogliono 700), di stelle e pianeti (è un infuocato bi-Sagittario: ah, questi doppi segni; meno male che c’è quel Mercurio in prima casa…), di antenati, di percussionisti, di ispirazioni musicali (l’approccio ad ogni nuovo strumento genera le proprie, concordiamo convinti), di cipolle e carote (i remissivi e i prepotenti, secondo Sheckley, maestro di fantascienza sarcastica), di filosofia (musicale, of course), racconta come l’uso in coppia delle arpe diventò una scelta obbligata dopo che un bifolco lo sfottè impavido criticando l’uso di una tecnologia che giudicava eccessivamente facilitatrice. E’ vero, si disse il Nostro: non ho bisogno di loop elettronici e altre diavolerie digitali. Sono capace di crearmeli da solo i tappeti sonori che ho in mente e nelle dita! E così, con una comune e condivisa condanna per la musica “finta”, finisce una serata di magia e di amicizia.

 

Ma sarebbe sommamente ingiusto chiudere qui questo “novantesimo minuto” senza rendere omaggio all’altra fonte di emozioni della serata: i Lurikeen, sestetto di giovanissimi epigoni della più gioiosa e scatenata musica da ballo irlandese, riproposta con la grinta, lo spirito etilico (la birra, appunto, grande e invisibile presenza sul palco, visibilissima invece a tavola) e l’abilità tecnica degna dei celtici originali. Al di là della spregevole invidia da me dimostrata nei confronti delle loro splendide chitarre (ma poi, chissà? forse i manici delle Taylor non si adattano alle mie manine - almeno, lo spero…) la loro padronanza degli strumenti d’ordinanza (bodhràn, uilleann pipe, fiddle, whistle, flauto, irish mandolin), il loro affiatamento, la loro vibrante performance ha esaltato tutti i presenti costringendo a battere il tempo col piede chiunque ne avesse uno disponibile e quindi escludendo solo la fila seduta sui tavoli in fondo, che i piedi li tenevano ciondoloni.

 

Bella giornata, grande serata. Il sole ha illuminato quadri e libri (esponevo in anteprima le prime tre copie della mia ultima fatica “L’Ombra del Graal” che sono velocemente sparite insieme ad altri volumi della mia trilogia arturiana) e abbiamo ascoltato modulate voci leggere appassionate poesie e applaudito la distribuzione di meritati premi. La luna ci ha regalato musiche ineffabili, corde che imitavano lo scorrere dell’acqua e l’acqua della Dora sotto di noi che sembrava cantare sottovoce.

Per una volta, per questa volta, non sono stato assalito dalla voglia di prendere uno strumento e mettermi anch’io a suonare, tanto ero preso e affascinato e mi bastava ascoltare quelle note.

Non è il massimo?

 

29.5.05

Home:  www.bluestyle.org