Oscar Wilde

 

 

Alice nel Paese delle Meraviglie

 

 

Monty Python

 

 

Jeff Beck

 

 

Re Giovanni firma la Magna Charta

 

 

Liz Taylor è la Bisbetica domata 

di Shakespeare

 

 

Ron, Harry e Hermione

 

 

 

LONDON, I LOVE YOU

 

 

Sono stato svezzato a apfelstrudel (la torta di mele di mia nonna slovena) e umorismo inglese.

 

In famiglia passavamo le serate leggendo a turno pagine de “Il fantasma di Canterville” di Oscar Wilde, con lo sfortunato spettro aristocratico che quando cerca di spaventare i pragmatici yankees (nuovi proprietari della tenuta) con spaventose apparizioni corredate di catene cigolanti, si vede offrire con cortese fermezza un lubrificante per oliare i suoi rumorosi aggeggi. Sapevo a memoria l’incipit di “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” di J.K.Jerome, la scena in cui lui legge distrattamente un’enciclopedia medica ma ben presto si convince di avere tutti i sintomi di tutte le malattie, con l’inspiegabile ed irritante esclusione del ginocchio della lavandaia. Il primo approccio con Pelham Grenville Wodehouse e le edoardiane storie dell’impeccabile cameriere Jeeves e del suo tontolone padrone Berto Wooster fu “Jeeves non si smentisce”, libera traduzione di “The code of the Woosters” (comprai l’originale a Londra nel 2001) in cui a Berto è richiesto di recarsi da un antiquario per esaminare una lattiera d’argento a forma di mucca e schioccare la lingua con disgusto, affermando che, Mio Dio, no, è un lavoro moderno olandese! E tutto per far abbassare il prezzo del prezioso reperto.

 

Amo l’Inghilterra e lo humour britannico! E l’understatement, l’atteggiamento che “enfatizza l’insignificante e minimizza le catastrofi”, come quel generale che arrivò in ritardo a una riunione a causa di un bombardamento nazista: un “leggero contrattempo”, lo definì lui. O il pungente Winston Churchill che, a Lady Astor esasperata dal suo caratteraccio che esclama: “Se fossi vostra moglie vi metterei il veleno nel caffè!” risponde pronto:”E se fossi vostro marito berrei quel caffè!”

 

Amo e coltivo il gusto per l’assurdo, il “nonsense”, i giochi di parole sparsi a piene mani in “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, pseudonimo del serio matematico Charles Lutwidge Dodgson. 

“Guarda per la strada e dimmi chi vedi.” chiese il Re ad Alice.

“Sulla strada? Nessuno.”

“Ah, se avessi gli occhi come i tuoi! – osservò il Re in tono smanioso – Riuscire a vedere Nessuno! E a quella distanza! Pensare che con questa luce io al massimo riesco a vedere la gente vera!”

 

Ho seguito come un leopardo la carriera dei Monty Python, le cui innovative trovate comiche spesso acutamente intellettuali (i sei Python avevano tutti un'istruzione di alto livello) e generalmente etichettate come demenziali, in realtà mescolano tecniche classiche che sorprendono lo spettatore perché ognuna compare in un contesto comico imprevisto. Ho sempre provato pena per chi avesse assistito al film “Sliding doors” (1998, con Gwyneth Paltrow), che cita ripetutamente la battuta dei Python “Nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola!”, senza conoscere lo sketch originale dei tre inquisitori imbranati.

 

Si sa che i Python erano apprezzati dai Beatles ed in particolare da George Harrison che finanziò il film “Brian di Nazareth” (che nessuno voleva produrre, giudicandolo blasfemo) per poterlo vedere compiuto. “George si è comprato il biglietto del cinema più costoso della storia”, commentò il sestetto nel suo consueto stile.

 

Amo i musicisti inglesi, ironici e fantasiosi. Oltre ai Beatles, gli Shadows di Hank Marvin (che raccomandava al pubblico osannante: “Please! Please! Please!... Don’t stop!”), i graffianti Kinks del mio rivale in amore Ray Davies (ha fatto una figlia con la mia adorata Chrissie Hynde dei Pretenders), il mio eroe Eric Clapton, il burbero orso Mark Knopfler, l’elegante Brian May, il testardo Pete Townshend, l’irrefrenabile Jeff Beck, il mefistofelico Jimmy Page, il funambolico Guthrie Govan, l’istrionico Ian Anderson (vabbè, lui è scozzese).

 

Amo e rispetto la storia della nazione che sin dal 1215 con la Magna Charta seppe limitare lo strapotere reale e successivamente insegnare al mondo la democrazia parlamentare.

Amo Shakespeare e i suoi grandi registi/interpreti Laurence Olivier e Kenneth Branagh.

Amo il romanzo storico di Walter Scott, i gialli di Conan Doyle e Agatha Christie, il fantasy inglese di Tolkien e Joanne Rowling (“Il Signore degli Anelli” e Harry Potter, tanto per capirci) e anche le storie indiane di Kipling.

Amo la recitazione inglese, ironica e distaccata di Alec Guinness, Michael Caine, David Niven, Colin Firth, Alan Rickman, Anthony Hopkins, Sean Connery (vabbè, lui è scozzese) e l’incantevole classe di Audrey Hepburn. Charlie Chaplin è inglese, lo sapete, no? E anche la splendida Elizabeth Taylor era nata in Inghilterra e aveva cittadinanza inglese.

 

Insomma, pur apprezzando le immense collezioni artistiche del mio paese, il suo mare, il suo sole e il suo cibo (Daninos faceva dire al personaggio del Maggiore Thompson che un pranzo inglese può trasformarsi in un’orrenda avventura); pur apprezzando la leggerezza di spirito dei miei connazionali (che però spesso vorrei un po’ più seri e affidabili), l’Italia non mi avrà mai del tutto.

Il mio cuore è a Londra.

 

 

26/02/2018

 

 

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