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PAN?

concerto dei Waterboys a Chiari (BS) - 20/3/2004

Mike Scott è un quarantaquattrenne sagittario scozzese testardo, bizzoso e imprevedibile.

L’organizzatore non usa proprio queste parole, ma il messaggio è chiaro: il concerto dei Waterboys subirà ritardi, seguendo i suoi comodi; guai a fotografarlo o potrebbe abbandonare tutto imprecando; gli artisti sono tutti un po’ matti, si sa, e dobbiamo prenderli come sono.

Così il pubblico di questo palestrone di confine (“Tell me, please: here we are in Sanbernardeeno, or in Ciaary?” chiederà perplesso il Nostro e le risposte, equamente divise fra le due ipotesi, non serviranno a chiarirgli le idee su dove esattamente si stia esibendo) rumoreggia impaziente in attesa dei Ragazzi d’Acqua.

Il palco è spoglio e non permette di ipotizzare quale sarà la formazione con cui si presenterà il nostro amato menestrello. Assenti basso e batteria (in timida rappresentanza delle percussioni è appeso ad un asta un pudico tamburello), a destra una rastrelliera con tre violini ci rassicura sulla probabile essenziale presenza del suo fedele scudiero Sir Stephen Wickham, sciabolatore di emozioni quant’altri mai; il piano elettrico a sinistra potrebbe essere lì per Lui, autorizzando l’ipotesi di uno scarno duo, ma un occhio esperto ha notato a centro palco un Trace Elliot TA 100R, eccellente amplificatore per chitarra acustica e quindi l’ipotesi di un terzo strumento/strumentista per un organico molto folk e poco rock si fa strada e acquista credibilità.

La conferma arriva un po’ dopo le ventidue, quando sul palco salgono Mike, Stephen e il biondo pianista Richard Naiff: un trio, quindi, dove la base ritmica, il tappeto per le scorribande solistiche del violino, è affidata al pianoforte e alla sferragliante chitarra del leader (ne usa due in rigorosa alternanza, riaccordate ogni volta puntigliosamente da Zio Fester, il massiccio pelatissimo roadie, operazione che puzza di eccentricità ma probabilmente necessaria visto il ripetuto uso di capostasti Shubb che le rendono ancora più acute e petulanti e, va da sé, scordabili. “How sound to you?” ci chiederà Scott a un certo punto, dopo aver pasticciato su un’accordatura che evidentemente lo lasciava perplesso.)

Inevitabilmente l’inizio del concerto propone alcuni pezzi da Universal Hall, l’ultimo recente album, non proprio esaltante; ma un occhio indiscreto ha colto per un fugace attimo (un “attimino”, diremmo, se non trovassimo il termine vomitevole) la scaletta appoggiata sul mixer delle luci e l’ultima parola era indubitabilmente PAN. Ne deduciamo rallegrati che il pezzo finale sarà The Pan Within (“Seguimi in questo viaggio – sotto la pelle – cerchiamo insieme – il Calice Profondo”) emozionante capolavoro che prevede un violino da brividi. Tuttavia il nostro amico Paolo obietta e puntualizza (è un pistino Verginino) che lo scarno appunto potrebbe anche riferirsi a The Return Of Pan (“C’è chi dice che gli Dei siano un mito – ma indovina con chi ho appena danzato? Il Grande Dio Pan è vivo!”). L’obiezione diventa sfida e scommessa e poiché è in ballo la nostra capacità percettiva musicale e l’onore stesso è in gioco, non badiamo a spese e spingiamo la posta fino a un lussuoso chewing gum (per la cronaca: sto sottoponendo i miei muscoli mascellari a rigorosi esercizi poiché saranno chiamati a superlavoro…)

 

Quale scatola, cassetto, box, bottiglia, armadio, container, involucro, astuccio, custodia, cofanetto potranno mai rinchiudere, limitare, definire, imprigionare, rinserrare, etichettare la musica e l’arte di Mike Scott? Il nome del suo gruppo deriva da un verso di Lou Reed, ma le radici affondano nella tradizione celtica irlandese, i testi sono complessi e viscerali e richiamano il miglior Dylan (ma attenzione: Scott non è il nuovo Dylan; Scott è l’unico Scott!), gli arrangiamenti sfrangiano fra il folk più campagnolo e il rock più duro, passando attraverso profonde influenze dei nativi americani, da Scott molto amati e studiati.

Il concerto pescherà dall’intera sua produzione, un’esibizione gioiosa e intensa trainata dalla sua possente e acrobatica voce, con qualche scherzosa digressione (A Man in Love, proposta solo perché il pianista pare non ricordare gli altri pezzi; Scott che a un certo punto farfuglia al microfono strani gorgoglii e poi ci spiega che era in azione il rewind, l’ascolto a rovescio; Naiff, con i capelli sugli occhi, curvo a pestare sulla tastiera come il pianista dei Muppetts; Wickham sornione come un mandarino cinese, gli occhi socchiusi sul viso placido, ma che ogni tanto piroetta su se stesso strappando suoni incredibili dal suo legno e applausi a scena aperta, autentico Hendrix del violino, vero gigante nella sua categoria, che pure annovera campioni come Byron Berline, Dave Swarbrick, Don Sugarcane Harris, Jean-Luc Ponty). Piano e voce da soli disegnano The Whole of the Moon, l’omaggio a Prince (“Io vedevo solo dei lampi, tu tutto il progetto – io ho visto la falce, tu la luna tutta intera”); attesa l’intensa Sweet Thing di Van Morrison, altro grande riferimento di Scott; Wickham in un pezzo utilizza magistralmente un mandolino, Naiff un flauto traverso; quando al pianista è concesso di esibirsi in tempestosi assoli, gli altri due si accalcano intorno al pianoforte, rendendo incandescente l’atmosfera con i loro strumenti e il loro ritmo e sembra di assistere ad una jam improvvisata da un gruppo di amici in un pub irlandese.

I bis concessi senza difficoltà (“E’ veramente divertente suonare per un pubblico come voi!”) spillano al muro il poster di Fisherman’s Blues, il loro capolavoro (“Vorrei essere un pescatore, che si agita per mare… nessun soffitto a opprimermi, solo il cielo stellato, con la Luce sul capo, e te fra le mie braccia”), ma che dire ancora? Qualcun altro ha capito e descritto la loro musica prima e meglio di me e a lui vi affido.

 

A me resta da sciogliere solo un ultimo dubbio, l’ultimo equivoco. Questo artista rigoroso, impegnato, eclettico, onesto, testardo, controcorrente (“Le canzoni non sono mie. Una volta scritte sono di tutti. E’ triste che la musica sia amministrata da una burocrazia commerciale”), allegro, indipendente, beffardo, con una penna che sa stillare potenti pozioni al servizio dell’amore, la magia, la dignità, la fantasia, non è umano. La nuvola disordinata di capelli sul viso lungo e magro è più che un segno di libertà: serve a nascondere le orecchie a punta del folletto, l’elfo, di quell’impertinente ragazzaccio che sa volare e da lassù cerca di indicarci qual è il senso della vita e la strada giusta per coglierlo.

Il Pan stava per Peter.